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Questa conferenza, tenuta al Capitolo Generale della Congregazione Benedettina di Solesmes nell'aprile 2023, presenta il cammino sinodale come esperienza spirituale. L'Autore, egli stesso cistercense e giovane vescovo di Trondheim in Norvegia, offre una lectio divina in cui esamina le "narrazioni sinodali" della Bibbia e della sua tradizione monastica per discernere le condizioni in cui il Sinodo sulla sinodalità sarà un cammino di santità.

Nell'aprile di quest'anno ho avuto il privilegio di rivolgermi al Capitolo Generale della Congregazione Benedettina di Solesmes. L'assemblea mi aveva chiesto di riflettere sul tema “Sinodalità e santità”. All'inizio ero perplesso. Non avevo pensato alla sinodalità in termini di santità. È vero, ultimamente abbiamo sentito usare così spesso la parola che siamo arrivati a pensare che abbia attinenza con tutto; anche se in termini di legame essenziale viene solitamente associato non a un ideale escatologico ma a un processo di governo legato alle mozioni di un corpo ecclesiastico, il Vaticano II.

Alcuni osservatori hanno sostenuto che la visione del Sinodo attualmente in corso è come il traboccare della coppa del Concilio. Il cardinale Grech, segretario generale del sinodo, è stato più

cauto, ammettendo che la parola "sinodalità" è assente nei documenti del Concilio, ma presentarla emerge da essi come un sogno. Se facciamo fatica a configurare il sogno, potrebbe essere perché la "sinodalità" è proteiforme, incline, come ha sottolineato un'altra autorità1 , a essere "dinamica, non statica", come è il mare.

Non tutti nascono marinai. Alcuni affrontano le onde con ansia, cercando un punto fisso, una costellazione nel cielo per orientarsi. Per tali persone è utile la categoria della santità. Me lo ha insegnato il compito che ho ricevuto questa primavera. Ciò mi ha portato ad adattare la mia prospettiva e ad individuare il ponte cercato che unisce ora i lavori del Sinodo alla visione e all'insegnamento del Concilio. Per quanto riguarda la santità, il Concilio è stato meravigliosamente esplicito. Il capitolo quinto della grande costituzione sulla Chiesa, Lumen Gentium, pone la santità come la nota sulla quale devono sempre essere accordati tutti gli strumenti della Chiesa. Cristo, ci viene ricordato, «ha amato la Chiesa come sua sposa, consegnando se stesso per essa, al fine di santificarla» (n. 39). Solo nella misura in cui acconsentiamo a essere santificati in Cristo corrisponderemo al nostro proposito cristiano e promuoveremo «uno stile di vita più umano» in questo mondo (n. 40), la cui discesa nella disumanità terrorizza. Il Concilio insiste sul fatto che ogni stato di vita ha una santità che gli è propria. Perseguirlo richiede sacrificio. Viene evocata la testimonianza dei martiri. La sintesi è incredibilmente audace: «Tutti i fedeli di Cristo sono invitati a tendere alla santità e alla perfezione del proprio stato. Perciò tutti hanno l'obbligo di impegnarsi in tal senso. » Da questo obbligo si trae una conseguenza pratica: «Tutti abbiano dunque cura di orientare rettamente i propri sentimenti più profondi dell'animo» (n. 42).

Sono ora in gioco i sentimenti profondi dell’anima. Sembra opportuno valutarli rispetto a questa convocazione. Potremmo farlo rivedendo l’aspetto dominante della sinodalità prima nell’Antico Testamento, poi nel Nuovo, per chiederci come possiamo applicarlo al meglio alla nostra vita – come potrebbe condurci insieme alla meta che cerchiamo: la santità.

I. La sinodalità nell'Antico Testamento

Chiariamo innanzitutto la terminologia. L'etimologia di «sinodos » è stata ripetuta fino alla nausea : « odos » in greco significa «via»; «syn » significa «con». Un sinodo è un cammino perseguito in fraternità, un cammino condiviso. Un viaggio presuppone una meta. La tradizione ascetica è severa nei confronti dei viandanti che girano in tondo. San Benedetto considera il tipo di tale circolazione, il girovago2 , come colui che si perde definitivamente. Per le persone con una mentalità biblica, la nozione di “via” evoca forti associazioni. Sappiamo da san Luca che la Chiesa nei tempi apostolici era chiamata «la Via» (At 9,2). Cristo si è dichiarato « la Via» (Gv 14,6). Questa è la Via da seguire. Il suo obiettivo è chiaro. Nella preghiera sacerdotale Cristo ha pregato: «Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria» (Gv 17,24). Essere con il Figlio diletto del Padre, immagine di Dio (Col 1,15) nel quale siamo stati creati (cfr Genesi 1,27) è ora e sempre la chiamata del genere umano fin dalle origini.

Un certo grado di sinodalità è implicito nell'atto creativo di Dio:

«Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza» (Genesi 1,26). Per realizzare il nostro potenziale iconico, lo scopo del nostro essere è diventare come Dio. Tale movimento non si realizza in modo isolato. Dopo la creazione di Eva, l'uomo e la donna dovevano essere, nell'unione consacrata, «una sola carne» (Genesi 2,24), orientati l'uno verso l'altro nella complementarità. La dinamica è applicabile in modo più ampio. È l'incontro con lo sguardo dell'altro che mi rivela a me stesso, permettendomi di comprendermi e svilupparmi nella comunione.

Al racconto della comunione originaria segue il racconto della caduta. Rivela il lato oscuro della sinodalità:


«Quando la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquisire saggezza, prese del suo frutto e ne mangiò; ne diede anche a suo marito, ed egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di entrambi e si accorsero che erano nudi» (Genesi 3,6-7).

La collusione ha portato alla morte dell’innocenza. L'altro, familiarmente rassicurante fino a poco prima, era ridotto a un estraneo, attraente e temibile allo stesso tempo.

La Scrittura qualifica l'azione che provoca la caduta come “peccato”, una perdita di direzione mortale. Una conseguenza del peccato è la volontà più o meno deliberata di attirare gli altri nella mia desolazione, che ora mi sembra, a causa dell'intorpidimento della coscienza, come la realtà stessa, il mio milieu vital . Il pensiero di restarci da solo è insopportabile. Nel progetto di Babele è resa esplicita una chiamata ad allontanarsi sinodalmente da una dipendenza da Dio liberamente posseduta. Si dicevano l’un l’altro: «Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (Genesi 11,3-4). Il loro desiderio era quello di mantenere un’assemblea coerente, di creare un modello sociale tanto attraente da unire tutta l’umanità. I loro criteri erano autodistruttivi, e non se ne rendevano conto. Il progetto fu sabotato dal Signore stesso.

La vocazione di Abramo, nostro padre nella fede, è stata

sinodale. Avendo ascoltato la chiamata di Dio, prese sua moglie Sarai, Lot figlio di suo fratello […], le persone che avevano acquistato ad Haran', e partì per andare nella terra di Canaan (Genesi 12,5). All'inizio è andata abbastanza bene. Finché la meta del viaggio è remota, suscettibile di idealizzazione, la sinodalità non pone grandi sfide; i viaggiatori immaginano la natura del viaggio come meglio credono. Quando si avvicina la fine del viaggio, e sorgono problemi di divisione del territorio, nascono le tensioni. I possedimenti di Abramo e Lot erano tali che "il territorio non consentiva che abitassero insieme" (Genesi 13,5 ss.). Si divisero. «Sepàrati da me», disse Abramo, «se tu vai a sinistra, io andrò a destra» (Genesi 13,9). Questa storia ci aiuta ad abbandonare le nozioni semplicistiche di sinodalità. Se non si ha in mente la stessa finalità, la stessa immagine di paradiso da restaurare, una forza centrifuga si farà sentire. L’unità, sempre vulnerabile, sarà allora destinata a rompersi.

Questa tendenza è all'opera nella storia dell'Esodo di Israele dall'Egitto, che accompagna ogni anno la nostra preparazione alla Pasqua. Mosè, Aronne, Miriam e un pugno di iniziati, preparati dalla provvidenza, avevano una visione lucida delle ragioni per cui dovevano uscire dall'Egitto e trovare la terra promessa. L’assemblea sinodale nel suo complesso era di mentalità pragmatica. Queste persone desideravano una migliore qualità di vita, diversa, un riconoscimento. Tali aspirazioni sono legittime, ma insufficienti a preservare l'unità nell’ andare avanti di una moltitudine variegata, un " vulgus promiscuum innumerabile ", per citare la memorabile interpretazione di Girolamo di Esodo 12,38, che segna l'inizio di un resoconto di molteplici conflitti, dissensi e separazioni.

Chiunque abbia tempo e voglia potrà perseguire questa lettura del tema di fondo sinodale attraverso gli scritti storici e profetici. Resta una prospettiva veterotestamentaria sulla sinodalità che non può essere definita cinica, poiché ogni pagina della Scrittura suggerisce speranza; è semplicemente realistica. E questo è utile. Per procedere insieme verso la santità, verso l'incontro con il Santo, dobbiamo percorrere una strada regale, a volte angusta.

II. La sinodalità nel Nuovo Testamento

Il brano evangelico più comunemente citato nei testi sinodali è il racconto dei viandanti verso Emmaus. È’ sublime e offre livelli semantici sempre nuovi. Potremmo ugualmente fare una lettura in chiave sinodale della chiamata a Maria o agli Apostoli, a Maria Maddalena o a Paolo. In tal modo potremmo imparare molto su cosa

significa camminare in compagnia del Figlio di Dio. È proprio la sua presenza, del resto, a costituire il criterio dell’autenticità sinodale.

Sono attratto da un racconto sinodale del Nuovo Testamento più discreto, dalla testimonianza di un uomo che è arrivato alla fede quasi suo malgrado, che ha seguito Gesù a distanza, pur senza perderlo di vista; che rimase fedele fino alla fine, pur restando nell'ombra. Parlo di Nicodemo. Nicodemo, «uno dei principi dei Giudei», compare nel terzo capitolo del Quarto Vangelo. «Venne da Gesù di notte» (3,2), approccio emblematico del nostro tempo, dove fede ha spesso un carattere notturno. Nicodemo pone domande ponderate. È’ riflessivo, serio, cerca risposte vere a problemi reali. Anche sotto questo aspetto rappresenta lo stato d'animo attuale.

Nicodemo vuole essere ascoltato, ma sa ascoltare con attenzione. Qui tocchiamo un nervo scoperto. In generale non siamo molto bravi, adesso, ad ascoltare. Siamo collettivamente affetti da logorrea, inclini alla disattenzione e alla sordità selettiva, anche all’interno della Chiesa, nel discorso sinodale. Tutti hanno qualcosa da dire. Tutti si aspettano di essere ascoltati. Ma siamo disposti ad ascoltare ciò che dice il Signore, quindi a prestare ascolto saldi nella fede, forti nel decidere liberamente e con fiducia?

Il dialogo di Gesù con Nicodemo tocca l'autorivelazione di Dio. Ci dice che è possibile vivere una vita permeata dallo Spirito di Dio. Parla della filantropia di Dio, che lo porta a svuotare se stesso affinché noi possiamo vivere, ed è l’esempio che siamo chiamati a imitare; pone la vita eterna come l'unica meta degna del pellegrinaggio dell'uomo sulla terra; sottolinea la libertà che possediamo di scegliere tra la vita e la morte, la luce e le tenebre, una libertà della quale un giorno dovremo rispondere davanti a Dio. In quel giorno dovremo rendere conto di persona delle scelte che abbiamo fatto, anche se influenzate dalle energie sinodali.

Dopo aver ascoltato e accolto l'insegnamento di Gesù, Nicodemo si ritira nella notte. Egli incarna uno splendido testo di Isaia: «L'anima mia anela a te nella notte; anche per mezzo del mio spirito, nelle mie viscere, ti cerco; poiché quando i tuoi giudizi risplendono sulla terra, gli abitanti del mondo imparano la giustizia» (26,9, seguendo la Nuova Vulgata ). Nicodemo è uno che attende veramente che il giudizio di Dio risplenda sulla terra.

Lo incontriamo di nuovo in una riunione di capi durante la quale sommi sacerdoti e farisei cercano di eliminare Gesù. Nicodemo protesta: "La nostra legge giudica forse un uomo senza prima averlo ascoltato e senza sapere cosa fa?" (Gv 7.51). Per camminare con Gesù e creare su di Lui una comunione sinodale, dobbiamo soppesare le sue parole e le sue azioni, ricercandone il significato e radicandoci nella sua epifania salvifica, senza cedere a visioni, pregiudizi e attese fugaci.

La terza apparizione di Nicodemo nel Vangelo avviene presso la tomba di Gesù. Chiaramente       ha seguito la crocifissione a distanza. Ora, quando i discepoli si addolorano per il loro amico, egli si avvicina portando «una mistura di mirra e aloe, del peso di circa cento

libbre» (Gv 19,39). I cristiani del Medioevo meditarono a lungo su questa scena. Vedevano in Nicodemo colui che aveva scrutato il mistero della Passione, che lo aveva abbracciato e poteva quindi comunicarlo agli altri. Nacque una tradizione che attribuiva a Nicodemo alcune opere d'arte, delle commoventi rappresentazioni del Crocifisso. Era considerato l'autore sia del Volto Santo di Lucca che del Crocifisso Batlló . È’ significativo, sicuramente, che i nostri antenati medievali lo trovassero atto ad essere scultore, maestro di un'arte tattile, modellando ciò che aveva visto con i suoi occhi, toccato con le sue mani (cfr 1 Gv 1,1). Senza bisogno di discutere sulla veridicità di tali attribuzioni, possiamo riconoscervi una perenne validità e valore simbolico.

Ritengo che Nicodemo sia un esempio per noi che ci sforziamo sinodalmente di essere veri discepoli e ricercatori della santità. Perché? Si tiene lontano dalle facili polemiche e dai gesti teatrali. Eppure segue il Signore ovunque vada. Quando c'è bisogno offre il suo servizio e offre volontariamente la sua amicizia alla comunità. Ci mostra cosa significa essere fedeli nell'oscurità del Venerdì Santo. Contemplando Cristo crocifisso e sepolto, ebbe la saggezza di riconoscere nella desolazione qualcosa di sublime, una gloriosa rivelazione divina. Divenne così testimone autorevole della vittoria del Crocifisso. Davvero, questo è un atteggiamento di cui la Chiesa ha bisogno adesso.

III. E noi?

Essere un cristiano, un cattolico, oggi è una sfida. Non ci sono due modi diversi per esserlo. Guardandoci attorno possiamo essere tentati di esclamare con il Salmo: «O Dio, nella tua eredità sono entrate le nazioni; hanno profanato il tuo santo tempio; hanno ridotto in macerie Gerusalemme» (Salmo 79,1). Essere un pagano significa essere qualcuno che non crede veramente, per quanto porti in sé i segni della fede. Viviamo con le ferite degli abusi, riguardo ai quali tutti speravamo che riguardassero solo i nostri vicini, non noi. Le nostre comunità si stanno rimpicciolendo. La domanda angosciosa: "Quanto tempo ancora?", si presenta in scenari che a memoria d'uomo sembravano incrollabili. La fiducia è stata tradita. I profeti della desolazione abbondano. Lo spirito di divisione, diffuso nella società, alza il suo capo disgustoso anche nella Chiesa. C'è una tristezza particolare all' intorno.

Eppure, questo è il giorno – e la notte – che il Signore ha fatto e ci ha affidato perché sia per noi tempo di salvezza. Come possiamo, in un tempo simile, vivere la nostra vocazione alla santità?

Innanzitutto portando, in unione con l'Agnello di Dio, la nostra parte del peso del peccato del mondo, un peccato non riducibile semplicemente ad atti empi. Questo peccato rappresenta anche lo stato di uno smarrimento mondano che esprime in modo caotico un dolore che tende alla disperazione, spesso privo di oggetto e per questo particolarmente temibile. L'Agnello di Dio « toglie i peccati del mondo » non schioccando le dita come un mago, ma sopportandolo . Noi siamo chiamati a vivere come membra del suo Corpo.

I fedeli che, con Nicodemo, sono chiamati a preferire ad ogni costo la luce alle tenebre (cfr Gv 3,18-21) devono essere pronti a portare sinodalmente il peso della notte che spetta ormai a molti. Ciò presuppone la disponibilità a restare dentro quella notte, pregando, lì amando e servendo , riconoscendo lentamente , anche se da lontano, la luce che nessuna oscurità può vincere (Gv 1,5).

Leggendo e rileggendo le fonti del monachesimo, le grandi vite (di Antonio , Ipazio e altri) che, prima che fossero scritte le Regole, indicavano il cammino della vita, mi colpisce il ricorrere del topos della compassione, intesa concretamente come disponibilità al «soffrire con». Questo è sicuramente un aspetto chiave dell'esperienza sinodale: la partecipazione, attraverso la pazienza, alla passione redentrice di Cristo. È questo il momento per riflettere su ciò che Paolo sussurra ai Colossesi: «Completo nella mia carne ciò che manca alle sofferenze di Cristo a favore del suo corpo, che è la Chiesa» (1,24). È’ significativo che il Concilio Vaticano II, esponendo la chiamata universale alla santità, abbia fatto esplicito riferimento al martirio:


Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la vita, nessuno ha amore più grande di colui che dà la vita per lui e per i fratelli. Già fin dai primi tempi quindi, alcuni cristiani sono stati chiamati, e altri lo saranno sempre, a rendere questa massima testimonianza d’ amore davanti agli uomini, e specialmente davanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al suo maestro che liberamente accetta la morte per la salvezza del mondo e col quale diventa simile a lui nell'effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come dono insigne e suprema prova di carità. Anche se a pochi è concesso, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancheranno mai alla Chiesa ( Lumen Gentium , n. 42).

«Tutti devono essere pronti». Senza melodramma, con sobrietà cristiana carica di buon senso, dobbiamo ammettere che questa chiamata ci tocca. Parimenti dobbiamo credere che la disordinata imprevedibilità che segna ogni vulgus promiscuum che si fa strada nel cammino sinodale, seguendo la via dei comandamenti (cfr il finale del Prologo alla Regola di san Benedetto ), realizza segretamente una melodia divina. Trovo immenso conforto nella confessione di una monaca benedettina del secolo scorso, suor Elisabeth Paule Labat, che conosceva intimamente le vicissitudini e i traumi della vita pur rimanendo radicata nella grazia liberante e trasformante della Croce. Ha articolato la sua intuizione matura così:

[Crescendo in saggezza] l'uomo percepirà la storia di questo mondo nella cui battaglia è ancora impegnato come un'immensa sinfonia che risolve una dissonanza in un'altra fino all'intonazione dell'accordo maggiore perfetto della cadenza finale alla fine dei tempi. Ogni essere, ogni cosa concorre all'unità di quella composizione intelligibile, che può essere ascoltata solo dal di dentro: il peccato, la morte, il dolore, il pentimento, l'innocenza, la preghiera, le gioie più discrete e più eccelse della fede, della speranza e dell'amore; un'infinità di temi, umani e divini, si incontrano, fuggono e si intrecciano prima di fondersi definitivamente in un piano generale che non è altro che la volontà del Padre, perseguendo in ogni cosa la realizzazione infallibile dei suoi disegni.

La santità è una categoria essenziale, non un'etichetta apposta a sigillo di una condotta impeccabile. La santità è ciò che è essenzialmente divino, categoricamente diverso da qualsiasi qualità, anche la più bella, esistente nella creazione. La via verso la santità è illuminata dalla luce increata. Dobbiamo essere cambiati per percepirlo. I nostri occhi, i nostri cuori e i nostri sensi devono essere aperti; dobbiamo uscire dai nostri limiti, entrare in una dimensione di verità che è di Dio.

La sinodalità che porta in questa direzione, configurandoci al nostro Signore crocifisso e risorto, è vivificante, profumata del dolce profumo di Cristo Gesù (2 Corinzi 2,15). La sinodalità, invece, che ci rinchiude in desideri e previsioni limitate, riducendo il disegno di Dio alla nostra misura, deve essere trattata con grande cautela.

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La NRT est une revue trimestrielle publiée par un groupe de professeurs de théologie, sous la responsabilité de la Compagnie de Jésus à Bruxelles.

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